18 lug 2012

Milan, fine di un'era. Inter, va (quasi) bene così. Lucio, ma che combini?

Le cessioni di Thiago Silva e Ibrahimovic hanno certamente inferto un brutto colpo ai teorici de "ilmilannonvendeisuoicampioni" e del "qualcunaltroinvecesì", appianando d'un colpo quel dislivello che sussisteva tra le due sponde del Naviglio, tra chi millanta di tenere i suoi campioni, esibendo baldanzoso e soddisfatto il proprio eroismo, e chi invece i propri pezzi pregiati li cede, perché la crisi c'è, e i ristoranti non sono pieni, ed ammette che la crisi c'è, e lo ammette apertis verbis di fronte ai propri tifosi.
Ecco, credo che al Milan sia finita un'era. In effetti, il Milan già da un po' ha cominciato a togliere il prefisso "in" dall'etichetta di incedibile con cui mostrava orgoglioso i suoi fenomeni di fronte al mercato europeo, una filosofia che è stata fiore all'occhiello della gestione Berlusconi per vent'anni, e che ha consentito all'Ineffabile di costruire un'aura di indistruttibilità e di unicità attorno alla propria creatura, accalappiando l'affetto dei tifosi, il consenso unanime da parte degli eunuchi della critica sportiva, e meritandosi l'invidia degli avversari. Ma questa è una fase che si esaurisce nel 2006, alla cessione di Shevcenko, cui fa seguito quella di Kakà nel 2009, quando già l'Italia e nello specifico le aziende di B. sono entrate in quella area di secca che è la crisi economica mondiale. Il Milan viene così per la prima volta assoggettato alle logiche aziendali, non viene più trattato come un affare di cuore, comincia ad essere visto per quello che è, un debito. Le cessioni di Thiago Silva e Ibra sono solo la conferma di un'inversione di rotta operata tempo fa. Nossignore, qui non si  contesta la scelta della società, che anzi è condivisibile, apprezzabile e comprensibile laddove si pensi alla megamulta di 500 milioni inflitta alla Fininvest. La cosa che stupisce sono i dieci, o anche undici, passi indietro che il Milan fa sul piano della comunicazione: è un anno un po' così. Si comincia il famoso 12 gennaio, con il fallimento inaspettato dell'affare Tevez, e il primo viaggio a vuoto dell'onorata carriera di Galliani; ma come, dovevano comprare Tevez e invece stavano per vendere Pato, non ce l'avevano mica detto? E perché lasciano partire Galliani e cambiano idea proprio al fotofinish, facendogli fare una discreta figura di menta? Si continua con quel diverbio mai del tutto decodificato nel tunnel di San Siro contro Marotta, e successiva maretta con la Juve, probabilmente mai del tutto ricomposta. E poi lo squallido balletto su Thiago, i comunicati microscopici sul sito ufficiale (tanto che so dimenticano anche un "comunica"), i silenzi di Galliani, e le battute corrosive di Raiola che gettano sale sulla Cartagine rossonera. Altri spunti: persino i giornalisti vicini alla società rossonera hanno preso topiche colossali, dal Pellegatti che smoccola a più non posso contro Conte, allo sventurato Mauro Suma che esulta per un tempo pressoché infinito a un presunto gol del Cesena, salvo poi accorgersi che a Mario Beretta (chi, Barnetta? ma non faceva l'allenatore?) il gol, l'avevano annullato. Salvo poi accorgerci, noi, che il tabellino di fine partita recitava zero tiri in porta del Cesena. D'accordo, non sono tesserati, ma sono parte attiva di quel grande carrozzone mediatico che gira attorno al Milan, e testimoniano, anche loro, che il primato del Milan nella comunicazione si esaurisce sostanzialmente qui.

L'Inter di Stramaccioni mi piace. C'è un'idea, c'è una strategia di fondo, una volta tanto, non si naviga più a vista, ma si cerca di realizzare un disegno concepito a tavolino, direi con discreti risultati. Lucio e Forlan sono stati imbarcati, Julio Cesar, Maicon e Stankovic hanno il foglio di via in mano, i rimpiazzi sono assolutamente degni di nota e hanno sopra ogni cosa voglia di vincere e di emergere. Handanovic è uno dei migliori portieri al mondo e viene a sanare quella situazione di criticità che si è creata nella porta dell'Inter negli ultimi due anni, e per ciò che attiene l'aspetto puramente medico (Castellazzi ha giocato 32 volte, cioè Julio Cesar è stato assente 32 volte, e non è bello non è piacevole), e per quanto riguarda le prestazioni, quando ha giocato, di Julio Cesar, che ha perso quell'esplosività e quella reattività che l'hanno caratterizzato negli anni aurei. Silvestre, dignitoso difensore, sostituisce il neo-bianconero Lucimar Ferreira, sfrondando di parecchie reti la colonna dei gol subiti; Palacio porta gol e inventiva e Mudingayi si rivelerà utilissimo alla bisogna. Pazienza se non è stato riscattato Poli, e pazienza se non arriveranno Destro, Poli e Lucas: la strada è stata tracciata, è chiara e limpida di fronte a Moratti e Stramaccioni, il primo ha preso in mano le redini della sua creatura e non ha nessunissima intenzione di mollare, il secondo sta dando forma a una squadra sempre più credibile in vista del campionato prossimo venturo. Handanovic; Chivu, Silvestre, Samuel, Nagatomo; Cambiasso, Guarin; Palacio, Sneijder, Coutinho; Milito è già così una eccellente formazione. Il mercato non potrà che migliorarla. Per la prima volta si ha la sensazione che la società sia ben vigile sul mercato, antenne drizzate e cervello acceso, onde evitare altre operazioni Zarate- Forlan. E se si riesce ad abbassare il monte ingaggi, ancora meglio.

Le dichiarazioni di Lucimar hanno infastidito, ma non ci hanno trovati impreparati. Qualcosa del genere ce lo aspettavamo. E' prassi diffusa e consolidata che chiunque entri a far parte di quell'ambiente là venga trattato con un brainwashing preventivo, cercando ove necessario di impartire fantasiose ripetizioni di aritmetica e di storia calcistica. A ciò aggiungiamo che Lucimar non si è lasciato benissimo con l'Inter e che quindi il suo sentimento nei confronti della dirigenza non era il più puro e limpido possibile. Vado oltre: era impensabile che un neo giocatore della Rubentus, con il "30 sul campo" appiccicato in bella vista sulla tenuta da gioco, prendesse una posizione contraria, pena incenerimento sul posto da parte di Supermonociglio. Ed è comprensibile che, pronti via, abbia voluto arruffianarsi quella fetta non trascurabile di tifoseria juventina che ha rinunciato a pensare di testa sua troppo tempo fa. Ma è quel "il mio presidente" che fa rabbia, è quel piccolo aggettivo possessivo che fa tutta la differenza del mondo. Perché se Andrea Agnelli è veramente il tuo presidente, e ti senti pienamente rappresentato da lui, allora hai finito di fare parte della storia dell'Inter. Liberissimo di accasarti alla Juventus, mancherebbe altro, liberissimo di fare i conteggi che credi sugli scudetti della tua nuova squadra, e liberissimo di sentire un legame di appartenenza con quel presidente. Liberissimi, noi, di pensare d'ora in poi che a Madrid quella sera del 22 maggio siano scesi in campo 10 giocatori. Tu, non c'eri.